IL TAO*, IL QI, LA FEMMINA E LE ARTI MARZIALI

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“Nel mondo niente è più molle e più debole dell’acqua,

eppure nell’abradere ciò che è duro e forte

niente riesce a superarla.” Laozi, 78

La Cina offre tradizioni antichissime ma sempre feconde che hanno dato vita, nel passato come nel presente, a una variegata gamma di espressioni, dove spesso si può assistere alla sorprendente conciliazione di non pochi opposti, reali o apparenti: cielo e terra, individuo e collettività, uomo e natura, corpo e spirito, passività e attività, Yin e Yang.

L’antichissima tradizione marziale cinese si sviluppa nel contesto di concezioni “locali”, come il Taoismo e il Confucianesimo, e di origine “straniera”, come il Buddhismo, con reciproci particolarissimi intrecci: solitamente un funzionario imperiale era maggiormente legato a ideali e riti confuciani, mentre gli ideali taoisti si sono spesso tradotti nell’opzione per la vita eremitica, a contatto con una natura selvaggia, e nel rifiuto di cariche pubbliche; tuttavia è altrettanto vero che la stessa persona poteva tranquillamente passare dalla partecipazione a riti confuciani a quelli taoisti e magari anche buddhisti senza alcun problema. Quello stesso fondamentale classico della letteratura confuciana che è il Lunyu (Dialoghi) non disdegna di utilizzare un termine chiave della tradizione taoista come Wu Wei (“non agire”, libro XV,5). Ricordiamo che nelle tradizioni asiatiche tanti rigidi confini e categorie, più tipici della cultura occidentale, cedono solitamente il passo ad una visione della realtà molto più fluida. Secondo la tradizione cinese i movimenti della raffinata arte della calligrafia possono tornare nel gioco di polso tipico del maneggio della spada, allo stesso modo il letterato studiava i libri classici ma anche le forme di Wushu (“Wu-Shu”=“Arti marziali”), conformemente al famoso detto: “studi letterari e preparazione marziale sono i doveri del gentiluomo”. Le arti marziali non costituivano solo un sistema di autodifesa e di salvaguardia nazionale ma anche un eccellente sistema di allenamento fisico e morale. Nel Wushu s’incontrano ferro e seta, forza ed eleganza, potenza e morbidezza, esterno e interno, competenze motorie e cultura: “Il Wushu è un’eccezionale eredità culturale cinese. È prezioso socialmente in termini di promozione della salute, rafforzamento della volontà, affinamento delle abilità combattive ed arricchimento della vita culturale” (tratto da Cheng Chuanrui, Il Wushu cinese). Il 17 dicembre 2020 l’arte marziale del Taijiquan è stata riconosciuta dall’UNESCO patrimonio culturale immateriale dell’umanità, quindi molto più che una semplice attività motoria, peraltro tutto il Wushu, anche nelle sue altre varie specialità, “è una parte preziosa dell’eredità culturale della Cina” (tratto da Li Tianji, Du Xilian, Guida alle arti marziali cinesi). Colgo queste citazioni dalla Tesi di arti marziali cinesi “Wushu Kungfu – Storia, metodologia e didattica delle arti marziali cinesi” dell’amico e maestro Claudio Albieri, che mi ha mostrato come il Wushu cominci con la pratica in palestra o, meglio, nei parchi pubblici e poi si estenda ad ogni momento e stagione della vita.

Il Wushu è cultura ed è strettamente connesso a determinate concezioni dell’uomo, del cosmo, della salute, interagendo con i grandi sistemi di significato della tradizione cinese, schematicamente riconducibili a Taoismo, Confucianesimo e Buddhismo. In realtà ognuno di questi grandi sistemi ha conosciuto in Cina, dall’antichità fino ad oggi, alterne vicende e numerosissime declinazioni, talvolta fra loro anche particolarmente differenziate. Qui, senza alcuna pretesa, mi limito ad uno sguardo decisamente sintetico su prospettive tipiche della grande visione taoista che ha segnato, e può continuare a segnare, non solo il Wushu ma la stessa filosofia di vita, lo stile e le scelte operative di innumerevoli persone.

I più noti classici taoisti sono spesso ricondotti ad una triade fondamentale, composta dal famoso Daodejing (dizione ormai passata nell’uso, rispetto a “Tao Te Ching”) attribuito al leggendario Laozi (= “il vecchio maestro”), al Zhuangzi (= Chuang-tzu) e al Liezi, a cui è bene aggiungere almeno il Neiye, trattato sulla coltivazione interiore risalente alla metà del IV sec. a.C. (presentato nella sua prima edizione italiana nel 2015 dalla sinologa Amina Crisma (“Neiye – Il Tao dell’armonia interiore”, Garzanti).

Non possiamo affacciarci alla grande narrazione taoista senza dimenticare il monito con cui si apre il Daodejing: “Il Tao che può essere detto non è il vero Tao”. La consapevolezza da cui partire è quindi che del Tao propriamente non si può dire nulla! Riconosciuto questo limite oggettivo, a cui si aggiunge il limite personale di chi scrive, provo a restituire quanto ricevuto dalla lettura, o meglio meditazione, di testi classici della tradizione cinese, a partire da quelli sopra citati. Quello che ci viene consegnato in queste straordinarie e non facili narrazioni è la visione di una armonia possibile, un equilibrio dinamico, che tocca cielo e terra, corpo e spirito, il singolo e il cosmo, in riferimento ad un Principio, il Tao, che precede e fonda tutto pur rimanendo in connessione con tutto, genera “i Diecimila esseri” ma si rende accessibile a chiunque, infatti: “Se il cuore è calmo, e l’energia vitale è ben regolata,/ Allora la Via potrà permanervi” (Neiye, op. cit. V, 3-4). Spesso il termine Tao non viene tradotto ma significa “Via”, allude cioè a un movimento, a un armonioso equilibrio dinamico; simboleggiato anche nel diagramma che mostra simbolicamente la reciproca compenetrazione fra Yin e Yang, l’incontro possibile e fecondo fra opposti che non sono bene e male ma principi cosmici, aspetti della realtà, colti appunto nel loro incontro dinamico: freddo e caldo, luna e sole, femmina e maschio, passività e attività…

È interessante notare che in questa prospettiva il principio di riferimento più sensato ed efficace risulti essere il principio femminile, Yin. L’autore del Daodejing lo dice molto chiaramente: “Con la sua quiete la femmina prevale sul maschio” (n. 61). Forse questo non deve essere letto come un discorso propriamente femminista, nel senso della legittimazione di una supremazia femminile, è un discorso culturale, filosofico, anche se l’autore sembra dire: “questa è la realtà, le cose stanno così, perché così funziona la Via”. Rimane comunque il fatto che è il principio Yin ad essere indicato come il riferimento più strategico; da qui anche il famoso ideale del Wu Wei, l’azione più efficace è la “non azione”: l’obiettivo non è il non fare nulla in assoluto, quanto piuttosto il non interferire rispetto agli armoniosi equilibri nei quali siamo immersi. Il principio Yin suggerisce coerentemente la strategia di uno stile morbido, che diventa stile di pensiero e anche di vita: le nostre idee vanno adattate alla realtà e non il contrario, quindi occorre non irrigidirsi nei propri schemi ed essere disponibili, nel caso, anche a modificarli; allo stesso modo lo stile di vita più sensato risulta essere improntato a semplicità, umiltà, sobrietà, spontaneità, naturalezza, in una profonda e coerente ricerca di pace, perché “All’uomo pertiene la quiete” (Neiye, op. cit., VII,3).

Il principio femminile Yin è il principio vincente: “Se si vuole essere forti, bisogna conservare in sé la debolezza (…). Se un’arma è troppo rigida non permette di vincere, se un albero è troppo rigido si spezza. Ciò che è flessibile e debole è compagno della vita; ciò che è rigido e forte è compagno della morte” (Liezi II, 17: “Liezi – La scrittura reale del vuoto abissale e della potenza suprema”, a cura di Alfredo Cadonna, Einaudi). In fondo questa prevalenza dell’elemento femminile non è altro che traduzione coerente della connotazione fondamentale del Tao: è vero, infatti, che propriamente il Tao non può essere nominato ma se tentiamo di nominarlo “è la madre delle diecimila creature”, cioè di tutto; il principio cosmico che fonda tutto è descritto in termini materni.

Secondo Laozi e gli altri maestri taoisti è prima di tutto nel contatto con la natura che possiamo ritrovare nostra “Madre”, percependo l’armonia del Tao; ne deriva la preferenza accordata nella tradizione taoista alla vita in piccoli villaggi a stretto contatto con l’ambiente naturale o, nel caso degli eremiti, ad una immersione più radicale nella natura, inoltrandosi in selvagge foreste o grotte, non di rado seguiti da moglie e figli, visto che prima dell’avvento del Buddhismo l’antica tradizione cinese non considerava l’opzione per il celibato.

La natura diventa “aula scolastica” e il principale manuale di studio, l’attenta osservazione del suo funzionamento apre a prospettive del pensiero e dell’azione e si traduce in precisi simboli e ideogrammi, come gli 8 trigrammi (Bagua), che si moltiplicano nei 64 esagrammi dell’antichissimo Yijing (I-Ching): ogni trigramma (dato dalla diversa combinazione di 3 linee intere o spezzate) è riferito ad un elemento della natura e a significati connessi; per esempio il trigramma indicante l’acqua (Kan) riporta al valore della flessibilità, secondo una suggestione particolarmente cara alla letteratura taoista (cfr. Daodejing 78) e anche tradizionalmente usata nella didattica delle arti marziali.

La consapevolezza di essere un piccolissimo elemento dentro un immenso gioco di equilibri cosmici porta alla lucida percezione del proprio limite, allo stesso tempo però il sentirsi connessi con il tutto permette di riconoscere un prezioso valore a sé stessi e agli altri; è per questo che la vita eremitica del saggio taoista non va vista come una fuga egoistica dalla propria responsabilità sociale: più l’eremita è docile al Tao più è intensa la sua connessione con la natura ma anche con i suoi simili ed egli diviene punto di riferimento con la vita e con le parole, cercate come consigli illuminanti; del resto spesso è anche seguito da discepoli, il silenzio cercato non è sterile ma fecondo, è la coppa vuota che può ricevere maggiore pienezza.

Nella riflessione taoista sul rapporto fra uomo e natura, individuo e cosmo, s’inserisce decisamente anche la riflessione sul Qi, termine utilizzato allo stesso tempo per indicare un soffio cosmico, energia della natura ma anche il respiro dell’uomo e la sua energia vitale. Sono evidenti le connessioni fra la tematizzazione del Tao e del Qi e la pratica di esercizi psicofisici, ginnico respiratori, noti in Cina da antichissima data. Nel IV secolo a. C. lo Zhuangzi ne parla come di tradizioni note e attestate: “Chi, soffiando ora con forza ora con dolcezza, espira e aspira, espelle l’aria viziata e assorbe l’aria pura, si appende come fa l’orso e si stira come fa l’uccello, cerca solo la longevità. È questo l’ideale di coloro vogliono nutrire il corpo stendendolo e contraendolo” (Zhuangzi, XV, a cura di Liu Kia-Hway, Adelphi Edizioni). Alcune tradizioni taoiste attuavano pratiche dietetiche ed esercizi ginnici e respiratori: questa ricerca di metodi per preservare la salute, abbinata alla riflessione sul Qi, si espresse nell’antichissima tradizione del Qi Gong terapeutico.

Sono evidenti anche le connessioni fra l’ideale morbido espresso dal principio Yin e gli stili interni del Wushu, legati allo studio e incremento dell’energia vitale, a partire dallo stile più noto fra questi, il Taijiquan. Abbiamo qui la traduzione concreta di questo principio: nell’elegante coreografia delle forme di Taiji (impropriamente trascritto anche “Tai-Chi”), come pure nelle efficaci applicazioni marziali di quegli stessi movimenti e anche nel combattimento prestabilito o libero del Tuishou.

Agli occidentali tutto ciò appare ostico sia in termini concettuali sia in termini pratici: siamo piuttosto abituati che è il duro che vince, che la forza si coniuga con la rigidità e che ciò che conta è imporsi e con ciò puntare al maggior successo; le antiche filosofie di casa nostra ci hanno abituato a pensare che “l’essere è” e il “non-essere non è”, e che quindi conviene occuparsi della pienezza piuttosto che del vuoto. Siamo eredi di secoli di questo tipo di pensiero e di stili di vita che ne derivano, riteniamo ovvi e fondamentali i principi di causa ed effetto, il principio di identità e non contraddizione, sappiamo che A è diverso da B e che questo non si discute. I pensatori cinesi invece discutono tutto ciò, ritenendo che la realtà sia più complessa, ritenendo che le nostre categorie siano troppo rigide: e se l’effetto diventasse causa e viceversa? E se A diventasse B o B diventasse A? La realtà è complessa, articolata e soprattutto assolutamente in movimento, quindi la fluidità suggerita dal Taoismo potrebbe essere più adeguata a rappresentarla; è una prospettiva dalla quale noi occidentali possiamo trarre stimoli interessanti, insieme ai cinesi oggi impegnati in una non facile rivisitazione delle loro antiche tradizioni in chiave moderna.

La sfida consiste nel vivere nel nostro tempo questi princìpi, e le tecniche che vi sono connesse (certamente compreso il Qi Gong e il Wushu), declinandoli nel rispetto della tradizione e, allo stesso tempo, in modo sensato rispetto alla propria collocazione nella quotidianità e alla visione della vita che ciascuno ha deciso di assumere.

A causa della poca dimestichezza che spesso hanno gli occidentali per termini e concezioni dell’estremo Oriente chi volesse trascinare vari elementi di queste tradizioni in percorsi commerciali ritagliati a proprio uso, consumo e vantaggio avrebbe buon gioco e purtroppo queste sono piste assolutamente battute: il Qi non lo si vede e lo si può tirare da tante parti, così come tanti elementi culturali o anche pratici delle tradizioni asiatiche. È molto facile, per incomprensione o malafede, deviare verso uno pseudomisticismo, un supermarket della metafisica orientale, dove la prospettiva olistica (dal greco “olos” = tutto) promette tutto senza far arrivare a niente; è questo il gioco delle sette o anche solo di chi si sa vendere bene come guru o esperto di discipline asiatiche, vendendo a caro prezzo tanto fumo e nessun arrosto. Non per niente molto spesso un buddhista asiatico non si riconosce affatto nelle rappresentazioni occidentali del Buddhismo e allo stesso modo ciò che è lo Yoga in India spesso non ha nulla a che fare con lo yoga praticato nelle nostre palestre, si può dire lo stesso per il Taiji ecc.

Rapportarsi con rispetto alle tradizioni asiatiche significa il più possibile riproporle così come sono originalmente interpretate e vissute, scelta sempre scomoda, esigente e non sfruttabile in termini commerciali ma sempre possibile e, a lungo termine, remunerativa: non nel senso, per esempio, che con un buon Wushu si possano fare molti soldi, quanto piuttosto nel senso che nella pratica e trasmissione di certi valori e competenze si possono efficacemente arricchire gli altri, oltre che se stessi, in termini di salute, equilibrio psichico, spessore morale e filosofia di vita, tutti robusti “mattoni” da spendere per la costruzione di una società più sana e vivibile per tutti, più aperta agli altri e insieme più rispettosa dell’ambiente naturale.

È interessante sapere che la pacifica via del Tao dipinta da Laozi (Daodejing), come pure del resto il nobile ideale di armonia sociale proposto dai Dialoghi di Confucio (Lunyu), non sono espressione di un periodo storico sereno e idilliaco ma esattamente il contrario: si tratta di testi scritti in un periodo di profonda crisi, di disorientanti sconvolgenti e feroci guerre, che culmina nel periodo degli “Stati Combattenti” (453-222 a.C.); forse proprio perché il loro mondo era così lontano dalla pace, dall’equilibrio e dall’armonia questi saggi maestri hanno sentito il bisogno di offrire un contributo utile alla costruzione di un mondo migliore. Non che crisi e profondi sconvolgimenti siano assenti nel nostro tempo e, a maggior ragione, per questo e anche in forza del loro originario contesto storico i valori espressi in queste antiche fonti e le prassi loro connesse possono essere utili anche per il nostro orientamento, la nostra cura, la cura degli altri e di quanto ci circonda.

Ferdinando Costa

*Rispetto alla più corretta traslitterazione “Dao” e “Daoismo”, adottata dal sistema di trascrizione pinyin, preferisco utilizzare qui le forme “Tao” e “Taoismo” in quanto comunemente più note.

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